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Figlina cara

liberamente ispirato a Architruc di Robert Pinget

con Andrea de Goyzueta e Fabio Rossi
realizzazioni sceniche Francesca Assirelli
tecnico luci Sara Cangemi
aiuto regia Francesca Ponzio
adattamento e regia Luciano Saltarelli

debutto > 31 marzo 2004
Teatro Elicantropo - Napoli

Un re, un ministro, la loro pianta: Figlina. Una reggia-prigione dove consumare noiose e indigeribili giornate alleviate solo da effimeri camuffamenti. Il sopraggiungere della morte come estremo travestimento. Questa la storia originale di Architruc, testo dal sapore beckettiano scritto da Robert Pinget (morto nel 1997) considerato autore del filone drammaturgico del teatro dell’assurdo. In una trama breve e elementare si addensano i rituali della vita e del teatro. Si rappresentano il divino e l’ordinario attraverso il travestimento lasciando scoperte le tensioni fisiche e le crepe comunicative. Alle tematiche e le atmosfere del teatro dell’assurdo Pinget affianca originali e sanguigne vene surreali che rendono senz’altro il testo talvolta spiazzante e difficile da collocare in una ben determinata corrente drammaturgica. Figlina Cara si propone di rileggere e riscrivere il testo attraverso una diversa chiave linguistica e scenica, lasciando però intatti i significati del opera originale.

Quando Andrea e Fabio mi proposero di curare la regia di Architruc non avrei potuto fare altrimenti che accettare. Sono infatti profondi i legami che mi uniscono al testo. Arcicoso (titolo italiano dell’opera di Pinget) fu il primo spettacolo (1991) con cui il Bardefe’ diede vita alla propria attività teatrale. In quella occasione vestii i panni del ministro Baga. Poi, nel 2001, per il decennale della nascita del teatro-cantina vomerese, decisi di riproporre il testo in tre versioni differenti. Ora, con Figlina Cara, nasce una nuova trasposizione che in un certo senso può considerarsi una summa di quelle precedenti.
Le variazioni più significative che ho praticato per Figlina Cara al testo originale sono di due nature, una narrativa e una linguistica.
Il finale dello spettacolo nell’Architruc prevede l’uccisone del re per mano de “La morte” con tanto di falce e mantello nero. Essa si materializza come probabile (ciò nel testo non è ben rivelato) estremo travestimento del ministro.
Il re, infatti, dopo un picco d’euforia precipita nella più profonda e definitiva resa alla “non vita”. Il desiderio d’ un viaggio e l’incapacità di compierlo realmente immobilizza definitivamente il personaggio e lo conduce inesorabilmente alla morte.
La scelta, invece, in Figlina Cara, di concludere lo spettacolo facendo svanire il re nel buio, senza più abiti e con un paio d’occhiali da sole deriva da un’immagine cristallizzata descritta nel testo originale e che a mio parere è la conclusione reale della narrazione. Il desiderio estremo di libertà di Architruc, essere tutto nudo nel sole (battuta pronunciata dallo stesso sovrano), si concretizza e la morte non ha più un valore fisico ma spirituale. Essa diviene incognito, abbandono, distacco da se stessi.
Un’altra variazione narrativa al testo è la soppressione di un personaggio minore, il “Cuoco”, che in Architruc è un alcolizzato e farfugliante inserviente, unico veicolo di comunicazione dei due personaggi col mondo esterno, e in Figlina Cara è solo evocato in una scena centrale, dedicata al pranzo del re. In tal modo diviene ancora più intenso e chiuso il rapporto tra i due protagonisti.
La riscrittura linguistica è senz’altro l’intervento più significativo e spiazzante di tutta l’operazione, ma per me non nuovo. Nel 2001 una delle tre versioni rappresentate, ’A pupata ‘e pezza , era in lingua napoletana, e inquadrava i due protagonisti sotto una luce estremamente popolare. I personaggi erano una bambina e suo fratello, orfani, sfollati e costretti a vivere in una baracca. L’attesa di un alloggio migliore e d’una esistenza più decorosa, era consumata con il medesimo gioco del travestimento dell’opera originale. La pianta divenne una bambola di pezza e la morte il passaggio della piccola protagonista dalla fanciullezza all’adolescenza.
In Figlina Cara l’uso del napoletano non è da intendere come abbandono al dialetto proprio degli attori o del regista, ma come scelta consapevole d’una lingua sostitutiva all’italiano. Forse sarebbe stato identico se l’idioma invece di essere del sud fosse stato del nord Italia o addirittura d’un’altra nazione. E’ certo che l’utilizzo di un dialetto, inteso come lingua popolare parlata, conduce i personaggi ad un livello comunicativo più immediato e concreto, ma non per questo sciatto o volgare. Il napoletano che ho utilizzato si distacca da quello attuale metropolitano (ormai napoletanese) e s’avvicina di più ad un dialetto pre-industriale, in cui affiorano ancora termini arcaici e di sapore provinciale. Tale linguaggio non è però immerso in un ambiente corrispettivo agricolo o dell’interland, ma decontestualizzato e restituito all’aspetto favolistico della storia.
Figlina Cara è una favola senza lieto fine, una filastrocca che si chiude in se stessa come i soggetti di un dipinto di Esher: “C’era una volta un re, seduto su un sofà, che disse alla sua serva, raccontami una storia. La serva cominciò: C’era una volta un re…”.

Luciano Saltarelli

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