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Democrazia autoritaria e modernità arcaica nella rappresentazione-narrazione della città

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Democrazia autoritaria e modernità arcaica nella rappresentazione-narrazione della città

Quest’articolo di Salvatore Casaburi è apparso sulla rivista Tabard il 5 aprile 2007.

“Le crisi non ci fanno paura, noi le superiamo preparando crisi più generali, più vaste, Noi realizziamo i vostri sogni.” Giuseppe Montesano, Di questa vita menzognera
“In grandi città viviamo. Hanno sotto cloache, dentro niente di niente, sopra solo del fumo. Dalle città nulla sortimmo mai. Periremo noi, ma adagio periranno anch’esse poi.” Bertolt Brecht, Ascesa e rovina della città di Mahagonny

La democrazia totalitaria ha bisogno, per affermarsi, di spazi urbani stravolti che fagocitano le vecchie funzioni, così come le avevano intese per secoli il mondo classico o quello medievale.

Negli spazi urbani stravolti del mondo contemporaneo, ridotti a tracce labirintiche, si celebra il rito collettivo del consumo-ideologia, del consumo-politica, del “consumo che consuma se stesso”. Il consumo, cioè, ha reciso ogni residuo legame con i bisogni, primari o secondari che siano. Il consumo diventa l’unica modalità per esistere nella/della società. Non conta più ostentare la qualità o l’esclusività del bene o del servizio di cui si usufruisce. Conta l’economia politica del segno che si affida alla transustanziazione del lavoro nel “puro spirito” della griffe. E questo, sia ben chiaro, in un gioco di specchi nel quale il logo finisce col sussumere anche il suo antagonista, il no-logo. La crisi culturale di città come Milano, di conseguenza, è riconducibile al consumismo realizzato affermatosi in epoca craxiana e berlusconiana. La produzione passa da produzione per il consumo a produzione dell’ideologia del consumo. Le architetture stesse della città diventano supporto pubblicitario della “Milano da bere” e Berlusconi crea la prima vera città artificiale italiana: “Milano 2”, per un disegno di virtualizzazione urbana che avrebbe trovato il suo pieno compimento nelle televisioni. Il consumo, quindi, si rimodella fino ad eliminare la sua essenza primaria. La liturgia può anche cambiare, ma il dio venerato accetta qualsiasi sacrificio gli venga offerto in nome dell’omologazione simbolica. In poche parole: non sono la qualità e la quantità del consumo ad omologare il lavoratore in nero della periferia al giovane benestante dei quartieri ricchi o l’intellettuale casual all’evasore fiscale col suv. Determinante diventa il riconoscersi comunque in un consumo, anche se non si ha la possibilità di realizzarlo o si ha la convinzione del carattere altro del proprio! Lo stesso conflitto sociale, nelle sue manifestazioni più violente, si gioca all’interno della medesima ideologia. L’obiettivo non è più quello di strappare il controllo dei mezzi di produzione al “nemico di classe”, ma di stabilire le condizioni per un rovesciamento di egemonia all’interno della medesima ideologia del consumo. In fondo, cos’altro rappresentano, nelle città implosive, gli assalti a negozi dai quali si esce esibendo come trofei merci che, probabilmente, non rispondono ad alcun bisogno reale da soddisfare? O, al sabato sera, le incursioni delle bande giovanili della periferia degradata napoletana nei quartieri ricchi, dove prevale la sindrome dello shopping compulsivo?

È il consumo-ideologia ad invertire una consolidata tendenza centrifuga e a riportare la periferia al centro, perchè è questa la vera funzione residuale del cuore della città.
È questa la ragione per la quale gli spazi urbani stravolti, con i medesimi franchising che rendono identiche le città del mondo, trasformano vie e piazze negli ambulacri del tempio di una religione universale. Appare significativo, senza per questo cedere alla tentazione di un giudizio moralistico, che le notti bianche in molte città europee e italiane abbiano tra i segni distintivi l’apertura fuori orario dei megastore, in grado di garantire per organizzazione e diffusione territoriale la celebrazione del rito collettivo. Ma questo discorso, ci sembra opportuno precisarlo, vale anche per i consumi cosiddetti culturali, nel senso che “l’importante è andare tutti insieme al supermercato della cultura” nella stessa notte e, come capita di fronte agli scaffali di un ipermercato, anche nella fruizione culturale c’è chi eserciterà un consumo responsabile e chi riempirà il carrello di merce inutile che, senza neppure passare per la mediazione sensoriale e corporale dell’acquirente, si trasformerà direttamente in spazzatura.
La politica delle amministrazioni comunali (quasi tutte) non a caso tende a pianificare la gestione del territorio ponendo spesso al centro dei suoi interventi urbanistici le aree destinate alla costruzione di ipermercati e outlet o trasformando le piazze in contenitori per il consumo culturale non “di massa”, ma massificato.

Vorrei, a tal proposito, soffermarmi sul caso di Napoli, dove molte piazze cittadine, private dell’antica vocazione di luoghi storici di aggregazione e di socializzazione, hanno assunto nuovi assetti spaziali in funzione della loro trasformazione in contenitori di eventi eterodiretti o in spazi musealizzati. A piazza Dante, ad esempio, le poche panchine disponibili sembrano sottrarsi ad ogni logica ergonomica, quasi ad indicare la necessità di soste brevi per chi intenda trovare sollievo nell’attraversamento della città. Piazza Plebiscito risente dell’oscillazione tra l’horror vacui della quotidianità e il sovraffollamento in occasione di eventi musicali (festivalbar et similia) dei quali l’elemento connotativo prevalente è lo strabordare dei logo degli sponsor. Si crea il vuoto pneumatico nelle antiche piazze perché il rito del consumo possa essere officiato al cospetto di folle di fedeli. Si finisce col non accorgersi che lo sponsor ha fagocitato l’evento stesso e che gli spazi della città si sono trasformati in spot tridimensionali di una televisione che ha occupato, oltre l’etere, la quotidianità spaziale degli abitanti delle città, si pensi alle gigantografie pubblicitarie che coprono le facciate degli edifici pubblici e privati in restauro e a tabelloni e totem che impediscono, come siepe leopardiana, di osservare l’ultimo orizzonte, senza che tuttavia sia concesso di naufragare nel mare liberatorio dell’immaginazione. La pianificazione urbanistica stessa tiene sempre più conto del consumo-ideologia. Le rare aree libere delle città vengono riservate, al centro come in periferia, ai santuari del consumo: ipermercati, supermercati, franchising, outlet, multisale, fast food, megadiscoteche. Persino la protesta dei farmacisti contro la vendita di alcuni farmaci nei supermercati risente della “cattiva coscienza” di chi finge di non ricordare che le farmacie sono esse stesse, già da tempo, supermercati, in una consapevole e crescente medicalizzazione di consumi che di terapeutico hanno ben poco, a partire proprio dall’acqua, trasformata dalla pubblicità in costoso elisir di lunga vita per il mondo ricco! Risale ai lontani anni del boom l’aspirazione della piccola borghesia a sfamarsi negli autogrill di Enrico Mattei panoramicamente protesi sulle autostrade. Si trattava ancora di un altrove per un paese che usciva finalmente dalla guerra e poteva fare il pieno di benzina e polli arrosto.

Nella sua ampia bibliografia Marc Augé si è più volte soffermato sulla trasformazione dei luoghi della città in non-luoghi.
Quello che tuttavia è da sottolineare è che i non-luoghi, al di là dei tentativi pure apprezzabili di interventi volti alla restituzione di senso a questi spazi, sono, per loro stessa natura, lontani dall’essere un nuovo modo di intendere la città. Essi sono l’anticittà, quasi un’antimateria in un universo in via di implosione. I non-luoghi “divorano” la città, come nelle malattie autoimmuni fanno le cellule che non riconoscono più le altre parti del medesimo corpo. La tendenza, quindi, non è la “sostituzione”, ma l’annientamento della città stessa. Quello che può apparire come un processo di delocalizzazione delle funzioni urbane, di espansione graduale delle periferie e di spostamento di funzioni in cerchi concentrici sempre più lontani dal centro, costituisce in realtà lo stadio che nell’universo si identifica con le novae prima dell’implosione nel buco nero dell’antimateria. Gli spazi e le architetture artificiali dei non-luoghi propongono null’altro che il simulacro degli antichi luoghi della coesione civica, costituiscono l’aspetto fantasmatico di un trapasso forse già avvenuto, in una transizione dalla “società” alla “folla” di cui le quinte di cartapesta sono un elemento necessario perchè il dominio del consumoideologia si compia in modo assoluto. Non a caso l’annientamento dei luoghi della coesione civica marcia con la produzione di rifiuti propria dei non-luoghi. Basti pensare ai cumuli di cartoni prodotti in un giorno dagli ipermercati e ai contenitori di eventi trasformati in discariche dopo il defluire della folla-pubblico, né su questo piano appaiono diversi gli esiti di raduni alternativi come i rave. Zygmunt Bauman ha affrontato e raccontato questa correlazione con estrema chiarezza. Si può affermare, ormai, che la società postcapitalista anche quando sembra tendere alla produzione immateriale, in realtà spinge all’estremo limite la produzione materiale, riducendola direttamente a “produzione di rifiuti”. Questo vale sia per le periferie di molte città trasformate in discariche abusive che per i cumuli di rifiuti che si formano a fine giornata in un ipermercato, fino ai congegni elettronici dismessi, sezionati da operai-stercorari nei più sperduti villaggi cinesi nel tentativo di una resurrezione della forza-lavoro che in quei rifiuti è contenuta. La crisi delle città è quindi sintetizzabile nel ciclo produzione-consumo-rifiuti-stravolgimento degli spazi urbani, fino a trasformare gli stessi esseri umani in potenziali scarti. Non a caso l’industria dei rifiuti cresce in parallelo con la moltiplicazione di agenzie che, più che al collocamento della forza lavoro, mirano alla sua selezione per conventio ad excludendum.

Ancora una volta la letteratura, sottraendo la comprensione del mondo alle banali conclusioni della politica-consumo, ci indica il futuro prossimo venturo: «I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.»  Leonia diventa drammaticamente “città visibile” nei nostri incubi metropolitani, con la sua folla di faccendieri, camorristi, politici menzogneri. La lotta per il controllo dell’economia dei rifiuti vede protagonisti criminalità organizzata e multinazionali, avendo come teatro l’intero pianeta, dalle plaghe una volta ubertose della Campania felix alle aree industriali dismesse del defunto socialismo reale. L’arcaica modernità ripropone la sua ossimorica devastazione, in uno scontro impari tra le prassi di esclusione sociale e quelle (minoritarie) di aggregazione antropica, indicandoci il futuro prossimo venturo delle nostre città.

La violenza nichilistica e i cumuli di rifiuti che fanno da sfondo a tecnologie neogotiche si stanno materializzando nelle nostre città, fuoriuscendo dalla dimensione virtuale della narrazione letteraria e cinematografica. Alla distruzione del senso operata dalla città implosiva occorre rispondere con la resistenza della ragione e della solidarietà. Il premio Nobel José Saramago ci propone una strategia per uscire dal labirinto urbano, senza dover inevitabilmente concludere il percorso impazzito nella stanza 101 che il potere prepara per tutti noi: «Se non esci da te stesso, non puoi sapere chi sei». Nel percorso iniziato con Cecità e proseguito con Saggio sulla lucidità e con Le intermittenze della morte lo scrittore individua nella soggettività cosciente e nel rifiuto del conformismo la possibile uscita di sicurezza. Non esiste morte della storia, perchè un percorso di liberazione è possibile per sottrarsi alle nuove forme di dominio.

A conclusione di queste note, volutamente frammentarie e incomplete, vorrei citare un testo che costituisce una valida base di partenza per orientarsi nei meandri di una riflessione che, per sua stessa natura deve rimanere incompiuta. Mi riferisco a Labirinti di Marco Maria Sambo, rivisitazione di un archetipo che ritorna nel mondo contemporaneo con la forza propria dei miti. Particolarmente interessante è la sezione intitolata La metropoli, il supermarket e il labirinto nel labirinto. Nel labirinto della metropoli si muove oggi una folla di soggetti subalterni, dagli esclusi delle periferie che implodono nelle vie del centro nelle sere del sabato, ai “consumatori-produttori di rifiuti” incanalati nei corridoi degli ipermercati, dai nuovi cittadini privi di diritti ai soldatini impauriti di un blocco d’ordine urbano al quale generali felloni indicano nelle diversità un nemico che non è tale. Sapranno essere cultura e politica novelle Cassandra e Arianna?

Salvatore Casaburi è nato a Napoli nel 1947.
Scrittore e docente di materie letterarie negli Istituti Superiori, ha pubblicato i romanzi La casa sulle metropolitane. Della storia, della pazienza, della memoria e dell’oblio (Ed. Intra Moenia, Napoli 1999). La lettera di Soterio (Ed. Dante&Descartes, Napoli 2002). Millenovecentocinquantasei. Disincanto napoletano (Ed. Dante&Descartes, Napoli 2005). All’attività di scrittore affianca quella di studioso delle dinamiche della comunicazione culturale.

Si può leggere l’articolo in forma completa e corredato da interessanti note.

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